In questi giorni il nostro studio è stato scelto tra i vincitori di un concorso per idee bandito dal Carcere di San Vittore insieme a Triennale di Milano, Fondazione Maimeri, con il supporto della società di comunicazione Shifton e dell’associazione Amici della Nave.
Avere passato la selezione significa poter contribuire a un progetto di riqualificazione di alcuni spazi del carcere.
Questa puntata è dedicata a fare conoscere la struttura circondariale collocata al centro della città di Milano ma quasi sconosciuta ai suoi cittadini
A Milano, il 24 giugno 1879, venne inaugurato il carcere di San Vittore, una nuova struttura che permise di concentrare lì i quasi 600 detenuti reclusi in 5 diversi luoghi di detenzione disposti sul territorio milanese. Il progetto della nuova casa circondariale seguì il dibattito ottocentesco riguardo alle più efficienti soluzioni per la detenzione e si allinea alla concezione di controllo razionalizzato dei detenuti. L’esito fu la realizzazione di un carcere a celle singole, per questo detto “cellulare o cellare” e realizzato sul modello americano del panottico, con un corpo centrale e sei bracci che si dipanano da esso.
La casa circondariale è ora intitolata a Francesco di Cataldo, ex-vicecomandante del carcere e vittima di terrorismo nel 1978, sorge sull’area di quasi 50mila mq dell’antico convento di S. Vittore all’Olmo dei Cappuccini, tra Porta Genova e Corso Magenta, un’area, al tempo della costruzione, periferica e poco popolata. La struttura è circondata da un alto muro di cinta con ai vertici cinque torrette ad uso di garitta.
Il complesso carcerario è costituito da tre distinti corpi di fabbrica: uno anteriore verso piazza Filangieri destinato agli uffici e agli alloggi del personale; uno intermedio con diverse destinazioni (tra cui uffici della direzione carceraria, sale dei giudici e avvocati, parlatori, dormitori dei guardiani); e il terzo di forma panottica per le celle dei detenuti. I 6 raggi sono lunghi 62,50 m, larghi 16m e alti 18,80 m, e nel progetto originale contenevano ognuno 100 celle disposte su tre piani. Tali celle misuravano per lo più 2,30 m x 4,30 m con altezza di 3,40 m ed erano dotate di una finestra a strombo per impedire la visuale esterna. I diversi corridoi convergono alla rotonda centrale, dove è situato l’osservatorio, costituito da un poligono di sedici lati coperto da una cupola con diametro 20,80 m ed impostata a circa 20 m da terra.
Tra i raggi vennero costruite le cosiddette rose di passeggio, per l’ora d’aria dei prigionieri. Queste erano divise in venti settori destinati ciascuno a un singolo detenuto, per impedire la comunicazione tra i reclusi.
Quest’ultima caratteristica esemplifica le concezioni di detenzione singola e rigido controllo individuale sulla base delle quali il progetto ha avuto origine. Tale principio di detenzione è mutato nel tempo fino ad essere fortemente contrastato dalle direttive italiane ed europee. In particolare il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio Europeo ha più volte sollecitato l’Italia ad allinearsi agli standard dimensionali minimi per la permanenza dei detenuti nelle carceri, che prevedono almeno 6 m x 2 m di spazio vitale, esclusi i sanitari, per le sole celle singole.
Oggi gli spazi esterni sono stati modificati per mediare tra lo spazio a disposizione e avere condizioni migliori di permanenza.
I nuovi standard dimensionali evidenziano i limiti di una struttura carceraria così datata e per di più sovraffollata che porta le persone detenute come i secondini in uno stato di continua tensione. I tempi d’attesa per i pasti, per le docce e per le visite coniugali si allungano inesorabilmente, dando adito a conflitti tra i detenuti, esasperati dalla situazione e rendendo l’ambiente poco sicuro.
Le condizioni di vivibilità risultano essere estremamente variabili da raggio a raggio: in generale le condizioni di sovraffollamento, di precarietà igienica e sanitaria, di inattività e ozio sono drammatiche, mentre il III raggio presenta caratteristiche completamente diverse. Da poco ristrutturato, non è sovraffollato e verte in buone condizioni di vivibilità. Tale braccio è stato destinato ad un circuito ‘selezionato’ di detenuti inseriti nel progetto “Nave”, nato nel 2002 e dedicato al trattamento avanzato per le tossicodipendenze. Il nome del reparto ne dichiara anche l’obiettivo: una sorta di traghettamento verso l’uscita dal carcere e, soprattutto, verso l’uscita dalla dipendenza della droga. Ciò avviene attraverso plurime attività come corsi di pittura, di teatro, di musica, di computer, di pelletteria e percorsi di psicoterapia e di agopuntura, colloqui individuali con psicologi ed educatori finalizzati al reinserimento in società dei detenuti ospitati.
Le celle della casa circondariale sono essenzialmente singole, doppie, o camerate da 5-7 posti. Sono tutte provviste di bagno privato, ma non di doccia, che generalmente sono comuni e situate all’ingresso della sezione. La condizione della struttura è discreta: pavimenti, pareti, finestre, anche se con schermature, sono in condizioni medio-buone e vi è la presenza dei riscaldamenti; tuttavia le dimensioni sono molto ridotte, sia per le celle singole o doppie che per le camerate. Gli ingombri dei mobili non lasciano molto spazio al movimento all’interno della cella, anche considerando la presenza in quasi tutte le celle di almeno uno (se non due o tre) letti a castello. L’ingente numero dei detenuti, inoltre, non permette di garantire a tutti un adeguato supporto: la direzione riferisce la particolare difficoltà di gestione delle situazioni psichiatriche, specialmente di persone straniere. Nonostante sia notevolmente migliorato il rapporto con i servizi esterni per la riallocazione delle persone una volta uscite dal carcere, permangono situazioni di criticità. Alcuni stranieri che necessitano di cure psichiatriche o di trattamento della tossicodipendenza all’interno del carcere, si trovano in un paradosso al momento dell’uscita: se, come spesso accade, sono senza documenti non possono essere presi in carico dal sistema sanitario e, di conseguenza, non hanno la possibilità di essere assegnati a comunità di supporto, finendo in tal modo per avere nuovamente problemi con la legge dopo pochi mesi.
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